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Su alcune poesie in dialetto milanese di Giovanna Sommariva

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Abbiamo già avuto modo di trattare la poesia di Giovanna Sommariva, dalla provincia di Como ma autrice in dialetto milanese, della quale ricordiamo oltre la versione appunto in meneghino di Campo 87 di Claudio Pagelli, sorta di spoon river del covid dal cimitero del capoluogo lombardo, soprattutto Dodes tucc mas’c (Dodici tutti maschi), un trattato dei mesi di cui ne sottolineammo il ripensare il tempo, il suo riflettere e riportare "nel cardine di una circolarità non svincolata ma pienamente agganciata al ciclo di una natura cui l'uomo è rimesso nel limite ma anche nell'aspirazione del suo abitare" nella pienezza del "senso stesso del nostro essere la terra", sulla terra. Ora in questi testi in cui abbiamo la grazia di poter essere immersi, questa linearità, questa circolarità di affetti, in cui è tutta la preziosità e la fragilità (nella sua fugacità) della nostra condizione, affidandosi a una parola che nell'affondo e nell'elenco di oggetti e luoghi di un passaggio che ha le sue tracce nei nostri stessi nomi, va ad aprirsi proprio nell'atto del suo smarrimento al suo restare, e restare per sempre perché presenza viva tra le pieghe delle sue incarnazioni. La dote, ed infine l'insegnamento, di questa poesia è allora tutta nel tono e nel procedere basso del suo scrutare, come di passo umile, nel cristallo di mondi sospesi tra un consumato svanire e lo spazio di identità proprio perché dismesse salve per sempre. Ecco che nei sottotitoli "ròbb de vecc" ("roba di vecchi") queste poesie tra boschi e vecchie case in cui come gli specchi sembrano riflettere solo del tempo il rifiuto, come quelle pitture che seppur sbiadite di queste stanze (quelle anche del cuore) sanno di tanta memoria la illuminata consegna, vanno a rivelare di qui ogni discendente incisione nella risoluzione di aspirazioni e fatiche ("de òmen e boeu"- "d'uomini e di buoi"). Di ricordi non " barlafus, resegaus de memòri" ("cianfrusaglie, segatura ") ma lampada ad illuminare così i passi per chi riconoscendosi ancora vuole vedere. Come "el letton di nònni" ("il lettone dei nonni") dove difficilmente si poteva accedere eppure luogo di comunione e centro di affetti, sua raccolta, qui raccontato dalla rete che ne svelava i movimenti, e sopra al muro, al centro, oltre a un ventaglio, la " raggera de ramm d'oliv, / che se derviva a protezion/ de ona union per semper" ("raggiera di rami d'olivo/che si apriva a protezione/di una unione duratura"). Si sente ancora la sua canzone, in cuore e pensiero, seppur tutto è cambiato tiene a dirci la Sommariva in una bellezza in cui, come in "Murett a secch" ("Muretto a secco"), il muschio non va a trattenere o a chiudere il respiro ma a custodirlo in aderenza come di terra alle costruzioni e alla sofferenza. L'abilità della parola poetica è tutta in questa voce che di tanta bellezza ne sa reclamare la mitezza, e la custodia uomo per uomo, ulivo per ulivo come nella chiusa finale incontro a un cielo che passando ci, li trasfigura. Bene che tra i solchi ha il profumo del "capper, ch'el gh'ha cà/ in la filidura intra i sass/ a instrià coi barbisin / di sò fior" ("cappero, che abita/ la fessura tra i sassi/ad incantare con le vibrisse/dei suoi fiori"), figura che ha nella sua creaturalità antica la sua origine, e la vita come in noi nella generazione che la Sommariva non cessa di celebrare, e così di interrogare interrogandoci. Attendiamo il nuovo libro allora cara Giovanna, e grazie.

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